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Orecchio Assoluto per la Musica e le Lingue Straniere

Aggiornato il 24/07/2019 da Armando Elle 1 commento

orecchio assoluto

Come mai un articolo sull’orecchio assoluto? E’ una lunga storia, che comincia grazie a Fabio, un lettore del blog.

Fabio fa l’attore, e ha scoperto il Blog de GliAudaci leggendo l’articolo su come memorizzare un copione teatrale. Ora, poiché fra qualche mese deve fare un provino per un musical, Fabio si ritrova anche a dover imparare a cantare bene.

E mi ha chiesto se ci sono tecniche di memoria non tanto per memorizzare la musica, quanto piuttosto per riconoscere e riprodurre le note musicali con la voce.

Cosa che chi ha l’orecchio assoluto fa con grande facilità, ma che di fatto è preclusa alla maggior parte di noi comuni mortali.

Avevo indagato il mondo della musica già un paio di volte in passato, e ne era uscito un articolo, “L’effetto Mozart“, scritto grazie alla collaborazione con il sito sviluppopersonalescientifico.

Ma la questione di tecniche di memoria e musica non l’avevo mai affrontata seriamente fino alla richiesta di Fabio.

Inoltre, capire il meccanismo con cui siamo in grado di riconoscere e riprodurre suoni molti simili fra loro mi sembrava interessante anche per un’altra area molto cara ai lettori de GliAudaci: lo studio delle lingue straniere e il perfezionamento dell’accento.

Così, per rispondere a Fabio, ne è venuto fuori un lungo articolo nel quale:

  • Definiremo brevemente cosa è l’orecchio assoluto
  • Vedremo come Anders Ericsson, l’autore del bestseller “Peak”, lo riconduce, più che alla genetica, a una particolare forma di esercizio che lui chiama “deliberate practice“
  • Ci sposteremo allo studio dell’accento nelle lingue straniere, scoprendo perché siamo “sordi” a certe differenze di pronuncia
  • Scopriremo come un gruppo di ricercatori della Stanford University sia riuscito ad insegnare a dei giapponesi a distinguere la R dalla L dopo appena un’ora di esercizio (per loro è, normalmente, difficilissimo)
  • Capiremo come te e Fabio potete applicare questi principi al vostro “orecchio”, che si tratti di note musicali o lingue straniere

E’ la prima volta che leggi il Blog de GliAudaci?

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Orecchio Assoluto: che cosa è?

Da un punto di vista della definizione, l’orecchio assoluto è la capacità di identificare l’altezza assoluta (cioè la frequenza delle note musicali) senza l’ausilio di un suono di riferimento, come ad esempio quello di un diapason.

Cioè, ti do una nota o una serie di note, e tu, senza alcun punto di riferimento, le identifichi.

Questo aspetto della mancanza di punti di riferimento contraddistingue l’orecchio assoluto rispetto al relativo.

Nel relativo infatti ti do un punto di riferimento, per esempio un “LA” con il diapason, e poi delle note.

E tu le riconosci poiché riconosci la “distanza” in altezza fra quelle note e il “LA” che ti ho dato.

A parte però la definizione tecnica, quello che mi intriga dell’orecchio assoluto è il fatto che è stato considerato per anni una qualità intellettuale quasi “mitica”, appartenuta a pochissimi geni musicali. Fra cui per esempio Mozart.

Inoltre, questa capacità di distinguere i suoni è correlata anche all’abilità nell’apprendere lingue straniere. E sarebbe quindi bellissimo svilupparla, anche per chi non è un cantante.

Solo che l’orecchio assoluto è considerato spesso un talento non acquisibile, ma determinato geneticamente.

E’ davvero così?

Orecchio Assoluto: genetica o esercizio?

Nel libro bestseller  Peak (“Numero 1 si diventa” nella versione italiana) Anders Ericsson  spiega a fondo un concetto molto importante per chiunque voglia migliorare la sua performance, e  in qualunque campo: la “deliberate practice”, o esercizio focalizzato. 

E lo fa partendo proprio dalla musica, da Mozart, e da una serie di ricerche scientifiche condotte su aspiranti musicisti.

Il succo è che la “deliberate practice” è qualcosa di profondamente diverso dall’esercizio normale.

Nell’esercizio normale infatti ti limiti a fare e rifare più meno sempre le stesse cose. Un po’ come quando studi per i tuoi esami.

L’esercizio focalizzato invece:

  • Sviluppa capacità che altre persone hanno già categorizzato e “scoperto”, e per le quali è stato sviluppato un corpus di tecniche di allenamento efficaci.
  • Avviene appena fuori dalla tua zona di comfort, cioè è sempre appena un po’ più difficile di quello che già sai fare
  • Riguarda il miglioramento di aspetti ben definiti, con obiettivi altrettanto ben definiti. Non è cioè diretto a un vago “miglioramento” generale della performance. Essa viene invece scomposta in elementi base, che vengono migliorati singolarmente e in maniera dedicata.
  • Richiede la totale attenzione del soggetto, che si esercita con consapevolezza.
  • Richiede feedback continui, e modificazione dello sforzo in base ai feedback. Per questo all’inizio è spesso necessario un maestro; ma poi, con l’aumento delle capacità, è lo stesso allievo che impara a monitorare la sua performance, a individuare gli errori, e a correggersi.
  • Richiede una corretta rappresentazione mentale degli esercizi che vengono eseguiti
  • Coinvolge spesso la modifica di capacità precedentemente acquisite, e che costituiscono di fatto un limite alla progressione della performance.

Pensaci su: sicuramente ci sono delle attività che fai da moltissimo tempo, per esempio studiare, imparare una lingua o praticare uno sport.

Magari per esempio vai tre volte la settimana a giocare a tennis con un tuo amico, e hai ormai raggiunto un plateau oltre al quale, anche dopo mille partite, il tuo livello non migliora più in maniera apprezzabile.

O magari studi inglese dalle elementari, ma continui a capire poco i film in lingua originale, e hai un accento pessimo.

Questo è molto tipico dell’esercizio non focalizzato.

Per migliorare devi invece rompere la routine con esercizi di difficoltà crescente, rivolti a specifici obiettivi, e sotto la guida di un feedback continuo.

Eventualmente anche re-imparando da capo i “colpi” quando la loro esecuzione imperfetta diventa un limite al perfezionamento della tecnica.

Secondo Ericsson dunque, che corrobora la sua posizione con una serie di ricerche scientifiche convincenti, è questo tipo di allenamento a creare nel tempo le grandi performance che noi attribuiamo al talento “genetico”.

E il segreto starebbe quindi nel saper organizzare e gestire  nella maniera migliore gli schemi di apprendimento / esercizio.

Naturalmente poi, e qui ritorniamo per un attimo a Mozart, più precocemente un individuo si dedica ad una attività con la deliberate practice, più sono le possibilità che raggiunga livelli di performance straordinari. 

In parte perché ha più anni a disposizione per accumulare ore di esercizio, e in parte perché la plasticità neuronale è maggiore da giovanissimi.

Non sto però ora a raccontarti tutto del libro che, credimi, è molto convincente ed utile.

Pensiamo invece a Fabio e al suo provino per il musical cercando di  capire come tradurre, nella pratica, le raccomandazioni di Ericsson.

Per farlo, e quindi per rispondere a Fabio sulla sua richiesta di sviluppare il suo orecchio, assoluto o relativo che sia, ti racconto un esempio tratto da un altro libro, di argomento apparentemente molto diverso.

Migliorare l’accento: un problema di orecchio assoluto?

Nel libro “Come imparare qualsiasi lingua” il cantante lirico (ops, non è un caso!) e poliglotta Gabriel Wyner parla, fra le altre cose, dell’apprendimento del linguaggio da parte dei bambini.

Da un punto di vista cognitivo, i bambini non sono affatto superiori a noi nell’apprendimento delle lingue (scopri perché leggendo “come imparare una lingua anche se non sei più un bambino“).

Ci stracciano però quando si tratta dell’accento. Come se avessero non dico un orecchio assoluto, ma un orecchio molto molto migliore del nostro.

Cerchiamo di capire perché.

Bambini e linguaggio

Tutti noi sappiamo che, spesso, gli asiatici adulti distinguono a fatica la R dalla L, e fanno ancora più fatica a pronunciarli come suoni distinti.

Un bambino cinese o giapponese al contrario non fa alcuna fatica a distinguere l’una dall’altra due parole come Rima e Lima.

Il suo cervello cioè è in grado di distinguere perfettamente la R dalla L, e perde questa capacità quando il bambino cresce.

Come mai?

Vedi, noi pensiamo alla R e alla L come a due lettere molto molto diverse. Ma non è affatto così.

Da un punto di vista fonetico infatti ciascuna consonante fa parte di un gruppo di suoni che si assomigliano fra di loro; la R e la L per esempio fanno parte delle “dentali liquide”, solo che una è arrotata e l’altra no.

Ora:

  • Un bambino italiano cresce in un ambiente dove viene sottoposto continuamente a “stimolo L” e “stimolo R”, e quindi impara a distinguerli perfettamente.
  • Un bambino asiatico invece cresce in un ambiente dove “Stimolo L” e “Stimolo R” non esistono, ma esiste una consonante intermedia fra le due, che chiameremo “Stimolo L/R”. (In realtà anche più complessa, se pensi che per esempio la R di oRigami loro la pronunciano come un misto di L, R e D: anche quest’ultima, una dentale come le altre due).

Dopo un po’ di tempo, il cervello del bimbo asiatico, poiché ascolta solo  lo stimolo intermedio  “L/R” perde la capacità di distinguere gli estremi “L” ed “R”.

Il fatto è che, poiché non gli serve farlo, per motivi di economicità il cervello smette di farlo!

E allo stesso modo, per esempio,  per un italiano è difficilissimo apprezzare la differente pronuncia del gruppo Th in “Think” e “That”. Mentre per un americano esse sono differenti almeno quanto la L e la R in Lima e Rima.

Magari ti sembra incredibile, perché al tuo orecchio le due “TH” suonano assolutamente uguali , e non c’è verso che senti e riproduci la differenza. Ma è proprio così!

Quando un bambino impara una lingua acquisisce infatti una sordità selettiva verso le differenze di pronuncia che non esistono nella sua. E tende ad assimilare ad uno dei suoni che già conosce tutto ciò che ha un suono intermedio.

E così si porta dietro un pessimo accento anche dopo aver studiato una lingua per anni e anni.

A meno che non utilizzi la deliberate practice.

Deliberate practice e minimal pairs

Parole come Lima e Rima si chiamano “minimal pairs”.

Sono cioè coppie di parole che differiscono solo per un suono. Degli esempi in inglese sono “bad” e “bed”, “pen” e “pan”, “bin” e “bean”. (Nota che è la differenza in un suono, non nella scrittura, a definire il minimal pair. E quindi bin e bean sono minimal pair anche se differiscono per due lettere).

Ovviamente i minimal pairs  sono le parole più difficili da distinguere per uno straniero. E ogni straniero, a seconda della sua lingua madre, ne trova alcuni difficili e altri semplicissimi.

Il dipartimento di linguistica dell’Università di Stanford ha condotto un esperimento con i minimal pairs su due gruppi di giapponesi adulti.

Come abbiamo detto, gli asiatici hanno difficoltà enormi a distinguere i suoni L e R.

E così, il compito dei soggetti del primo gruppo era proprio stare davanti a un computer con delle cuffie e ascoltare alcune centinaia di volte le parole Lock e Rock, ripetute in maniera casuale.

Oltre un certo livello di risposte corrette, avrebbero incassato un piccolo premio in denaro.

Dovevano semplicemente schiacciare il bottone “Rock” quando gli sembrava di sentire la parola “Rock”, e il bottone “Lock” quando gli sembrava di sentire la parola “Lock”.

Un italiano avrebbe fatto certamente un percorso netto e incassato il premio!

Per il discorso L/R visto prima invece, i giapponesi del primo gruppo se la cavarono malissimo. Dimostrando anche che la loro capacità di distinguere i minimal pairs “Lock” e “Rock” non migliorava affatto con l’esercizio.

Il compito dei soggetti giapponesi del secondo gruppo era analogo ma con una differenza: ogni volta che schiacciavano il tasto di riconoscimento il computer gli dava un feedback immediato, dicendogli se avevano indovinato.

Dopo sole 3 sessioni da 20 minuti, il secondo gruppo era migliorato in maniera mostruosa. Come se il loro cervello si fosse riprogrammato, e non fosse più “sordo” alla differenza fra R ed L.

Quello che aveva marcato la differenza per le persone del secondo gruppo era proprio  la deliberate practice.

Infatti:

  • Non dovevano genericamente migliorare l’accento, ma un aspetto specifico, cioè la differenza fra L e R
  • L’esercizio era disegnato apposta per focalizzarsi su questo aspetto
  • Erano fuori dalla loro zona di comfort, ma non troppo. Non dovevano infatti imparare un complicato scioglilingua, ma solo la differenza fra L ed R.
  • Avevano una rappresentazione mentale precisa di come doveva essere svolto l’esercizio, cioè ne conoscevano le regole ed erano in grado di seguirle
  • Erano motivati dal premio in denaro (motivazione estrinseca, più che sufficiente per un test di questo tipo)
  • Dovevano modificare una abilità precedentemente acquisita (la loro percezione delle due consonanti) ma che era insufficiente per avere una buona performance
  • Avevano un feedback preciso e continuo dal maestro, in questo caso il computer

Quest’ultimo punto in particolare, il feedback, era stato determinante.

Orecchio assoluto, accento, e il problema di Fabio

Riconoscere e riprodurre suoni, nel caso di Fabio le note musicali, in altri casi le sfumature della pronuncia di una lingua, è certamente anche un problema di memoria.

Ma per ricordare la differenza fra due cose devo prima di tutto essere in grado di distinguerla.

Per questo credo che il problema di Fabio si possa risolvere non con le consuete tecniche di memorizzazione, ma con la ripetizione spaziata in associazione allo schema feedback/correzione.

Quello che mi impressiona di più è che la “sordità” alla differenza fra L ed R è un problema che molti asiatici non risolvono neanche dopo anni ed anni di permanenza in un paese straniero.

Mentre nell’esperimento alla Stanford University sono bastate 3 sessioni da 20 minuti.

Ecco, questa è la differenza fra “l’esercizio” vago, aspecifico, senza obiettivi ben definiti e senza un feedback preciso, e l’esercizio focalizzato.

L’abilità dello studente e del suo coach, maestro, o come lo vuoi chiamare, consiste allora nel disegnare schemi di apprendimento che incorporino le caratteristiche della deliberate practice.

E se non hai un maestro, o non te lo puoi permettere per tutto il tempo che è necessario, con gli strumenti giusti puoi fare comunque parecchio.

Per esempio, se studi le lingue, puoi utilizzare software di ripetizione dilazionata e flashcards sonore per creare i tuoi minimal pairs.

Per quanto riguarda invece la musica, a Fabio ho consigliato una App che ho trovato su internet, e che si chiama Vocal Coach. Essa fa, nella sua versione base, una cosa molto semplice: ti ascolta cantare una nota e ti dice se la stai cantando giusta.

Fabio mi ha promesso di farmi sapere come va, e quindi spero un giorno di fare un update a questo articolo.

In ultimo, ma non meno importante, almeno per me: questo post sull’orecchio assoluto e le lingue non avrei potuto scriverlo senza le informazioni eccezionali che ho trovato nei bei libri di Gabriel Wyner e Anders Ericsson, ai quali va il mio ringraziamento.

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Commenti

  1. Alessandro Mantoan dice

    06/04/2017 alle 5:46 pm

    Ciao Armando, sono molto contento di aver scoperto il tuo sito, chiaro, semplice, graduale, ricco di link utili. Più tardi ho scoperto questa pagina, all’inizio ero curioso solo di sapere come funzionava il palazzo della memoria. Ho letto più tardi questa pagina interessante, per me chitarrista jazz; pensavo che la chiave di imparare le scale sulla tastiera fosse l’orecchio assoluto, ma suonando e ragionando su quello che hai scritto, credo che dipenda dalla visualizzazione delle tonalità durante l’improvvisazione, quindi dalla memorizzazione visuale della successione di accordi. Grazie intanto per questo spunto di riflessione. Ora ho due domande per te: quale può essere una procedura per memorizzare le 7 note delle scale con la relativa posizione sulla tastiera? esistono dodici suoni (nella chitarra ripetuti tre volte ad altezze diverse), due scale di base (maggiore, minore, ma mi piacerebbe col tempo impararle tutte e 10) per ogni suono ed ogni scala è composta da 7 note. La seconda domanda consiste in come memorizzare una sequenza di accordi con la loro durata? Io pensavo di associare i 7 colori principali per le note semplici, do, re, mi e le 5 note col diesis do#, re#, fa# con le gradazioni chiare degli stessi colori e quindi magari delle figure colorate per associarli a ogni nota, ma da qui a pensare a come associare la posizione della nota sulla tastiera poi all’interno di una scala di 7 note, mi diventa alquanto complicato. Come gestiresti tu questo procedimento di memorizzazione alla luce del palazzo della memoria? Grazie davvero per il tuo tempo e per la tua dedizione in questa materia. Alessandro

    Rispondi

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