
Quanti di noi hanno seguito le Olimpiadi di Tokyo 2020? E quante volte, di fronte alle prestazioni dei migliori atleti del Mondo abbiamo pensato “Che talento”?
Che poi è la stessa cosa che pensiamo quando vediamo il nostro calciatore preferito che si smarca e va a tirare in porta o il nostro idolo musicale esibirsi in un assolo da togliere il fiato.
Si tratta di una reazione naturale che io chiamo “bias del talento“.
Lascia che ti spieghi di che si tratta.
Come (forse ) sai – se no è l’occasione giusta per scoprirlo – gli psicologi definiscono “bias cognitivo” la nostra naturale propensione ad interpretare la realtà applicando una serie di distorsioni, di deviazioni dalla razionalità.
Se, da una parte, i bias rappresentano una vera e propria forma di adattamento dell’uomo, che tramite i propri schemi mentali riesce a dare rapidamente un’interpretazione agli avvenimenti della realtà e di conseguenza a prendere decisioni più velocemente, dall’altra è evidente che queste interpretazioni e decisioni sono spesso falsate dal pregiudizio e, dunque, in misura variabile, non efficaci e limitanti.
In particolare, il bias del talento ci limita perché ci offre una facile scusa: “Non è colpa mia, è solo che non ho abbastanza talento!”.
Quello che voglio fare oggi, allora, è dirti chiara e tonda la verità: il talento è uno dei concetti più sopravvalutati nella società moderna.
Non sto dicendo che sia inutile o, peggio, che non esista.
Ti dico però che, di regola, gli viene attribuita troppa importanza rispetto al suo reale peso nel successo di una persona.
Ma vediamo che cos’è esattamente il talento, e come funziona il bias che ne deriva.
Che cosa è il talento e perché lo sopravvalutiamo
Il talento viene definito in un noto dizionario come “propensione a qualcosa, capacità in un’attività, in un settore”.
Ed è innegabile che ciascuno di noi nasce con la naturale predisposizione per alcune attività, che spesso – e proprio per questa ragione – diventano poi anche le nostre preferite.
Non tutti, però, riescono ad approfittare davvero di queste loro predisposizioni.
Come mai?
Se torniamo ai grandi sportivi e, più in generale, alle persone di grande successo, essi hanno sempre un ingrediente in più, oltre al talento, che li rende quello che sono.
Questo ingrediente non è altro che il duro lavoro.
Ne abbiamo già parlato a proposito delle ricerche di Angela Duckworth e dell’equazione della tenacia:
se una particolare attitudine a fare qualcosa non viene incanalata in ore e ore di duro lavoro, essa non si svilupperà mai appieno.
Pensa per esempio alla vita di un’atleta d’elite.
Comincia solitamente con un’infanzia e un’adolescenza costellata di allenamenti quotidiani e costanti, di sacrifici enormi, di ore e ore passate a sudare mentre i coetanei vanno in giro a divertirsi, senza alcuna garanzia di diventare poi negli anni futuri un campione.
E’ un investimento su se stessi.
Si inizia magari vedendo che mediamente si è più bravi degli atri in un determinato sport. Diciamo che si parte con un vantaggio, una propensione, un talento appunto.
Ma tutto ciò che viene dopo è sudore, sacrificio, tenacia, determinazione.
Se anche solo uno di questi ingredienti viene meno, tutto il sistema crolla.
E infatti abbiamo decine di esempi di campioni talentuosi ma assolutamente incostanti. Stelle che hanno brillato per un paio di stagioni, e poi sono sparite.
Grandi promesse non mantenute.
Al contrario, chi invece diventa una stella, si sbatte sempre come un matto, indipendentemente da quanto talento abbia avuto in dono.
Quando ho letto Open, il libro sulla vita di Andrè Agassi che consiglio veramente a tutti di leggere (un libro che secondo me parla di crescita personale a fiumi pur non rientrando nel genere “crescita personale”), sono rimasto semplicemente sconcertato dalla vita alla quale è stato sottoposto Andrè da bambino e da ragazzino.
Suo padre gli aveva artigianalmente modificato una macchina lanciapalle in modo che le palline da tennis venissero buttate fuori con più violenza del normale.
Lui chiamava questo aggeggio “Il drago”, e il drago gli lanciava fuori quotidianamente una media di 2500 palline, perché “un bambino che colpisce un milione di palle all’anno sarà imbattibile”.
E in effetti così fu.
Naturalmente non mi interessa, in questa sede, sindacare sui metodi educativi del padre di Agassi.
Quello che invece mi preme sottolineare è che noi siamo spesso abituati a vedere la performance finale e a non sapere o dimenticare tutto il lavoro che c’è dietro.
Vediamo il risultato e pensiamo che Andrè Agassi, Cristiano Ronaldo, e così tanti altri, sono stat fortunati perché hanno talento.
E che il talento è ciò che gli ha permesso di diventare ricchi e famosi facendo semplicemente ciò che gli piace fare, ciò per cui sono portati.
Ma, come avrai capito, non è esattamente così, e ora vediamo perché è importante che tu lo sappia
Ma tu cosa puoi imparare da queste storie e da queste righe?
In questo articolo sono stato condizionato dalle Olimpiadi appena terminate e mi sono focalizzato su campioni dello sport, citandone anche un paio che sono stelle assolute nelle loro discipline.
Tu, però, potresti dirmi “Ma cosa c’entra tutto questo con me?”
Il fatto è che, non solo nello sport, ma nella vita in generale, se non si rende al massimo non è per mancanza di talento o di capacità, ma per mancanza di voglia di sbattersi.
Questo, se ci pensi su, dal punto di vista psicologico è una vera liberazione.
Vuol dire infatti che, a parte i casi in cui ci colpisce la sfortuna, che purtroppo può sempre capitare, i nostri risultati non dipendono da un oscuro dono degli dei, ma dalla nostra tenacia nel perseguirli.
E’ importante, allora, fare attenzione a che il bias del talento non ci freghi.
Esso, infatti, ci fa fare volentieri ciò che ci riesce bene, ma tende anche a farci impegnare al di sotto del nostro reale potenziale.
D’altro canto, proprio perché qualcosa ci riesce bene, spesso non sentiamo l’esigenza di dare il massimo.
Allo stesso tempo poi, il bias del talento ci fa anche evitare come la peste qualsiasi cosa per la quale non ci sentiamo portati.
– Perché dovrei fare una cosa per la quale mi sento negato? – diciamo più o meno consciamente a noi stessi.
Ma, ricorda bene, questa è solo una scusa.
Qui non si tratta di diventare campioni del mondo ma di crescere e sviluppare davvero il proprio potenziale.
Sento spesso conoscenti che si esprimono in inglese maccheronico con la scusa che“Non sono portato per le lingue straniere”
Persone che vegetano tra il divano e la macchina, magari accumulando chili di troppo e problemi di salute e la scusa puntuale è “Non sono portato per lo sport”
Altri che chiamano l’amico, il cugino, il vicino di casa per farsi installare un’app sul telefono “Eh sai, sono poco tecnologico”…
Non so quale sia il campo per il quale sei portato e quello invece per il quale hai zero talento, ma tu sicuramente lo sai.
Bene, migliora nel primo e approccia in qualche modo il secondo.
Ed impegnati, impegnati molto, perché questo farà la differenza tra te e tutti gli altri che resteranno a guardare convinti che, se per quella cosa non hanno talento, tanto vale non provarci neppure.
Nelle persone normali, così come in chi decide di dedicare la vita allo sport o all’arte, a fare la vera differenza sono la continua curiosità di imparare cose nuove, di affrontare i propri problemi, di andare oltre i propri pregiudizi, di non fermarsi di fronte alle difficoltà.
In una frase, di non farsi condizionare dai propri bias.
Quindi, se vuoi davvero avere delle grandi soddisfazioni, qualsiasi sia l’ambito in cui vuoi ottenerle, ricordati che non otterrai nulla se non sarai disposto a metterci:
- Curiosità: non importa se ti sembra di non capirne nulla. Non c’è nessun ambito della conoscenza che non meriti un’incursione, anche breve!
- Tenacia: ci sono momenti duri, è vero, ma sicuramente la tenacia viene ripagata, sempre
- Duro lavoro: non esiste una ricetta magica, senza la voglia e la costanza di sbattersi non si può ottenere nulla. Nemmeno con tutto il talento del mondo.
ELISABETTA dice
come sempre ottimi spunti di riflessione su argomenti mai banali.
Mi permetto di segnalarti un piccolo lapsus Tokio 2021, non 2020
grazie ancora Elisabetta